“Gioedé” il giovedì in dialetto Bergamasco
Il giorno di giovedì nel nostro dialetto gioedé, oltre che indicare il giorno della settimana, è anche elemento essenziale di alcuni forbiti modi di dire:
“A chèl lé al ‘ga manca quàc gioedé” è un’affermazione che si riferisce ad una persona poco assennata o che non possiede le normali facoltà intellettive.
Il riferimento al giorno di giovedì e non ad un altro, sembra sia dovuto al fatto che il quarto giorno della settimana era proprio quello della libera uscita dei matti dal manicomio.
“Tira mia fò di gioedé” si riferisce a non inventare storie, così come “dà inténd noma di gioedé” si riferisce a colui che conta balle, che mena il can per l’aia senza arrivare mai al sodo…
Se il rischio di incontrare dei matti si limitava al giorno di giovedì, la disavventura di avere a che fare con “un impiàstèr” era, ed è, senza dubbio peggiore.
Con questo termine si definisce un imbroglione, ma anche colui che non fa bene il suo mestiere “impiastrù”.
Il verbo “impiastrà” si usa pure in un’accezione più semplice, cioè per indicare lo sporcarsi. Si dice per esempio del bambino che, magari giocando “al sé impiastràt sö töt” (si è sporcato tutto).
Ma non manca una definizione ancora più precisa dell’imbroglione denominato “inturciù” e così vien fuori “l’intorciàda” (imbroglio) e il modo di dire: “i à fàcc dét ön’intorciàda piö finìda”.
Per fortuna in questo losco mondo “i è mia töcc impiastèr e inturciù, ma ‘l ghè amò tace galantòm”. L’importante è saperli riconoscere.